sabato 1 agosto 2015

Giacinta Caruso





Giacinta Caruso:
misteri e delitti nella Francia della fine del 1800 
di Bonifacio Vincenzi


Dimmi che libri leggi e ti dirò chi sei. Pare proprio che dalla personale biblioteca di una persona si possa risalire al suo carattere. E che i libri che  egli raccoglie e conserva siano l’intima confessione di ciò che ama e di ciò che è. Ma è proprio così? Vogliamo fare un test sulla mia personale biblioteca? Io  sono cresciuto  con pane, spada,  miniera e delitti. Mi spiego. Gli autori che sono presenti con più opere nel mio percorso di lettura sono Alexandre Dumas ( parlo del padre naturalmente, il figlio, nonostante La signora delle camelie, con un padre così famoso, aveva ben poche speranze di “esistere”), Archibald Joseph Cronin e Georges Simenon. Cappa e spada nei romanzi di Dumas, le miniere di carbone in quelli di Cronin e almeno un delitto in ogni romanzo di Simenon con o senza Maigret. Dei tre, a parte Simenon ( che gode ancora di una certa stima nell’ambiente intellettuale), gli altri due, per uno come me che ha diretto due riviste di letteratura italiana, non sono proprio autori di cui andare fieri. Perché? Non saprei dirlo anche perché questa questione, a mio avviso, non ha ragione di esistere. Per me, che poi ho scoperto  autori geniali come Fëdor Dostoevskij, Thomas Mann, Marcel Proust, Italo Calvino, tanto per fare dei nomi, esistono due tipi di lettura: una che definirei, in discesa libera, l’altra, in salita. E, spesso, l’una non pregiudica l’altra. Mi spiego. Considero letture in discesa libera  i libri di quegli autori che hanno la capacità di regalare a propri lettori momenti di vero e piacevole relax, attraverso una scrittura lineare, sciolta, veloce, avvincente. I tre moschettieri di Alexandre Dumas sono un tipico esempio di lettura in discesa libera


Sono più di settecento pagine che l’appassionato lettore letteralmente si divora. Quelli, invece, che amano le letture in salita, sono quei lettori che leggono con profitto. E per leggere con profitto – come direbbe G. S. Marden – occorre avere bene in mente tre cose: intenzione, attenzione e ritentiva. Caratteristiche tipiche, queste, che sono fondamentale per ogni scalatore deciso a conquistare la vetta più alta di una montagna. Personalmente mi sono sentito un po’ come Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, (gli scalatori, per intenderci, che hanno conquistato per primi nel 1954 il K2) quando sono riuscito a espugnare la fine del romanzo di James Joyce Ulysses, per me uno dei libri più ostici di una lettura cosiddetta  in salita.
Ora, tutto questo preambolo, cosa c’entra con La camera ardente di Giacinta Caruso? C’entra, e anche molto.
In una intervista Giacinta Caruso ha dichiarato:
“Quando mi chiedono perché hai scritto La Camera Ardente posso solo rispondere che era inevitabile. Appena imparato a leggere, a Natale mi regalarono un’edizione per bambini de I tre moschettieri. Lo iniziai a gennaio dell’anno successivo. Fu amore a prima vista. Ho un ricordo vivissimo di me seduta accanto al cammino che mi perdo dietro le avventure di D’Artagnan e Milady.”
Ecco dunque l’antefatto genetico di questo avvincente romanzo di Giacinta Caruso, edito recentemente da Panesi Edizioni. E basta addentrarsi nello scenario disegnato abilmente dall’autrice già delle prime pagine. per rendersi conto della straordinaria vicinanza del romanzo della Caruso con  il romanzo di Dumas uscito a puntate su “Le Siécle” nel 1844.
Prendiamo l’ambientazione storica del romanzo di Dumas. Parigi 1625. Il giovane guascogne Charles d’Artagnan arriva in città per cercare di entrare nei moschettieri di re Luigi XIII.



Spostiamoci ora nel romanzo della Caruso. L’ambientazione storica è quasi uguale. Parigi 1680. Lady Edwina ha appena sposato il marchese di Peyrac, un incorreggibile libertino, sempre alla ricerca di piaceri proibiti. La nobildonna, dopo esser rimasta vedova, è stata costretta alle nuove nozze dal cugino, agente in Francia del duca di Buckingham. Poi una donna viene assassinata. Il delitto sembra rimanere irrisolto. Da qui parte la vicenda e ci rendiamo subito conto di come la scrittura della Caruso sia avvincente. Come il grande maestro Dumas la Caruso mette in scena intrighi, colpi di scena, suspence, con in più una discreta dose di erotismo nel ritmo serrato di una narrazione che si apre ad una lettura decisamente in discesa libera. C’è una differenza, però, ed è che la Caruso a scrivere questo romanzo è da sola.  Dumas, invece,  è certo ormai che da solo a scrivere gran parte dei suoi libri non lo è stato mai. D’altronde sarebbe umanamente impossibile per chiunque scrivere in una trentina d’anni circa seicento libri di centinaia e centinaia di pagine, senza l’aiuto di un buon numero di “collaboratori”.
Avviandomi alla conclusione, devo dire che il personaggio di questo romanzo della Caruso che ho amato di più è il Commissario Savarin, un uomo paziente e di buon carattere. Mi ha colpito tantissimo l’idea che la scrittrice ha del suo personaggio:
“Se penso a Savarin, - avverte la Caruso -  nella mia mente compare il Gérard Depardieu di qualche anno fa, quando non aveva ancora assunto l’aspetto imponente di oggi. Insomma, vedo un uomo di mezz’età dai fluenti capelli rossi, di carattere schivo e malinconico che ha una passione per l’alchimia e nutre un amore senza speranza per la cugina, che gli ha preferito il velo.”
È  bene non aggiungere altro. Tutto il resto, chi lo vorrà, potrà scoprirlo attraverso la lettura di questo avvincente romanzo storico di Giacinta Caruso.

Immagini in ordine di apparizione: copertina del libro, Alexandre Dumas,  tipica immagine dei Tre moschettieri.



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